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Cosa stiamo insegnando

Cosa stiamo insegnando

Ho raccolto di recente molti racconti di amiche mamme letteralmente esauste dopo il primo (e non solo) anno scolastico dei propri figli alla secondaria di secondo grado, quella che, un tempo, chiamavamo scuola superiore. Alcuni racconti mi hanno colpita piuttosto duramente non solo per gli atteggiamenti in sé, ma per l’apparente mancanza di visione che esprimono.

Uno dei licei classici più temibili di Torino, nell’autunno del primo anno propone una gita di alcuni giorni per costruire il gruppo-classe, ma permette di partecipare ai soli ragazzi che hanno tutte le materie sufficienti. Gli altri no, stanno a casa.
All’open-day di uno dei licei scientifici sedicenti migliori della città, invece, hanno dichiarato apertamente che per loro non ha importanza che tutti arrivino alla maturità, ma che la selezione non solo è naturale, ma assolutamente necessaria e più cruda è, meglio è.
Parallelamente a questi racconti, raccolgo in prima persona quello che accade nelle società sportive: ad una certa età, piuttosto precoce, viene compiuta una selezione che taglia fuori chi ha fatto un percorso di crescita non ritenuto sufficiente (per moltissime ragioni restate volontariamente insondate) e gli aspetti formativi (non dico educativi, eh, sarebbe sognare troppo) vengono totalmente subordinati a quelli agonistici.

Per carità, nella parabola esistenziale del singolo tutto concorre alla crescita, anche la sconfitta e la frustrazione. Mi sono convinta, vedendo tante situazioni in giro per le scuole, che anche le circostanze più faticose e disabilitanti possono portare ad una crescita. Che, per fortuna, sono capaci di esistere dei “nonostante” grandi come cattedrali. E che, in fondo, fallire ci permetta di comprendere e accettare più profondamente l’umanità nostra e altrui. Chiunque tra noi, me compresa, potrà raccontare quanto siano stati cruciali i passaggi esistenziali difficili, frustranti, anche quelli che, a ragione o solo per edulcorarci la pillola, abbiamo sentito come ingiusti.

Il discorso, però, è più ampio: cosa stiamo dicendo a questi ragazzi? Che ci si salva da soli o dentro delle elite? Che ognuno deve lavorare per sé stesso o con gli altri che presumibilmente valgono, deve riuscire, e chi non ce la fa può davvero considerarsi come un pezzo da perdere per strada, qualcosa di cui si può fare a meno senza averne cura? Che chi non riesce non è degno di far parte di un gruppo? Che chi, nonostante l’impegno, ha meno possibilità di riuscire deve essere lasciato indietro se con le sue forze non ce la fa e ad un certo punto non è più in diritto di formarsi?
Certo stiamo parlando di sedicenti scuole di alto livello. Certo, si può sempre cambiare scuola o società sportiva o luogo di lavoro o gruppo sociale o nazione. Ma l’individualismo, somministrato senza porsi troppe domande, o magari con dolo, purtroppo si insinua già nella prassi scolastica con i più piccoli. E gli insegnanti, insieme agli altri educatori coinvolti, forse dovrebbero fermarsi a pensare a cosa stanno (stiamo) insegnando con questi atteggiamenti.

Chi ha più possibilità e fortune che ha maggiori responsabilità.
Riflettevo su questo anche relativamente all’università che frequento, che è unicamente orientata a formare maestri e maestre e nella quale, a maggior ragione, dovrebbe esserci maggiore attenzione a quel genere di meta-insegnamento che deriva dall’insegnare a insegnare insegnando. E, invece, anche lì, spesso mi sono imbattuta in leggerezza e superficialità, quando non in dolosa scorrettezza (con le dovute fulgide eccezioni).

Certo, finché ci sarà qualcuno pronto ad accoglierci quando non riusciamo, allora ci salveremo. Ma siccome quello che facciamo vedere ai nostri bambini e ragazzi è che si possono lasciar annegare centinaia di persone in arrivo verso le nostre coste in nome della propria sicurezza e della difesa di un non ben precisato benessere, allora è proprio adesso che la riflessione si deve fare molto molto molto profonda.
E la scuola, che come diceva Calamandrei, “corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue” è tra le prime a doversi fare queste domande perché responsabile della costituzione della società futura (e le sedicenti scuole alte della cosiddetta classe dirigente che avrà più peso e più responsabilità) e a trovare delle risposte orientate alla giustizia, al bene di ciascuno e di tutti. La scuola, certo, ma anche ciascuno di coloro che quotidianamente la abitano.
Che lo vogliamo o meno (e io, davvero, devo dire più da mamma che da maestra, perché la professionalità è davvero un filtro eccezionale, qualche volta vorrei essere invisibile e appoggiare su un qualche tavolo almeno ogni tanto questa responsabilità) i bambini e i ragazzi ci guardano. E imparano da e nonostante noi.

È il primo anno nella mia vita in cui non ho voglia di andare al mare. Come si fa a non pensare, ad abituarsi al dolore dei naufragi, alla negazione di umanità di cui siamo co-responsabili nelle scelte piccole e grandi che compiamo o che fingiamo di non vedere? Speriamo che, oltre alla spensieratezza che crediamo di dover avere come diritto insindacabile, il tempo dell’estate ci porti consapevolezza, riflessione, nuova umanità. Che non si esaurisca la voglia di sognare e realizzare qualcosa di giusto. Di parlarne e condividere opinioni e paure. Che continui a importarcene. Che siamo vigili su cosa stiamo facendo e su cosa desidereremmo che i bambini e ragazzi imparino da noi e con noi del vivere insieme.

[Illustrazione “Coloured rain”, Banksy]

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sono Chiara

lavoro come maestra nella scuola primaria

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