Ho vissuto un agosto di piccola comunità, in montagna, a stretto contatto con un numero variabile di ragazzi tra i nove e i tredici anni. Abbiamo fatto molte esperienze, alcune delle quali sono state preziose da sperimentare ad una scala intermedia tra la famiglia e la classe, occupando uno spazio un po’ atipico tra due realtà più consuete, quella familiare e quella scolastica. Questo spazio, in alcuni casi, è stato rivelatore di aspetti che, forse, non si attivano a scuola, ma forse, a ben pensarci, potrebbero farlo, se ben preparati.
Siamo capitati, un giorno, un po’ aspettandocelo e un po’ no, in un piccolo posto prezioso, “Ca’ dou Rouset”, una casa-museo di vita contadina, dove sono stati raccolti moltissimi oggetti che raccontano una quotidianità forse non così lontana nel tempo, ma incredibilmente perduta. I muri, gli oggetti, la loro disposizione e meticolosa catalogazione sono una ricchezza, ma più di tutto sono state la signora L e la signora G a trasportarci con i loro appassionati racconti fino a quel tempo vecchio appena di qualche generazione ma per noi così remoto. Si sono accavallate tantissime storie, comuni e singole, abitudini collettive e vicende individuali, è stato davvero emozionante starle ad ascoltare in quelle stanze. La signora L, quando siamo usciti fuori, sulla soglia prima di salutarci, ci ha fatto i complimenti perché i ragazzi, che hanno fatto la visita con lei senza noi adulti, le avevano fatte moltissime domande (mi è sembrata una lezione interessante, il prendere qualche distanza per restituire spazi di libertà ai bambini, senza condizionamenti degli adulti consueti, genitori o insegnanti che siano). E la signora G, maestra anche lei, ha raccontato tra le altre cose di una lettera, che non era presente nella casa in quel momento e che mi è rimasto un desiderio profondo di leggere (e far leggere) di un uomo emigrato a lavorare in America nelle miniere d’oro, che raccontava a un amico le condizioni di lavoro penose, le umili ispezioni corporali giornaliere, l’asprezza della vita da straniero. Vorrei tanto leggere quella lettera, mi sono convinta di poterci anche trovare la voce dei bambini delle miniere di Coltan. Mentre ero lì non ho mai smesso di pensare a quanto sarebbe bello portarci i bambini (soprattutto quelli di città) in gita.
Diceva il geografo Yi-Fu Tuan che l’uomo, per una vita felice, ha bisogno di trovare un equilibrio tra il focolare e il cosmo. La fetta di mondo in cui sono immersa quotidianamente sembra far pesare di più il desiderio del proprio focolare, inteso come gli interessi propri, rispetto al trovare il proprio ruolo attivo e benefico per gli altri, nel cosmo. Però, quanto sarebbe buono coltivare per sé e mostrare ai bambini e ai ragazzi che esiste un focolare giusto da costruire, quello che assomiglia al retrobottega di Montaigne. Mostrava, già nel Cinquecento, questo filosofo francese una meravigliosa e impervia via: “Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanza, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno. Noi abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in sé stessa; essa può farsi compagnia; ha i mezzi per assalire e per difendere; per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine.”.
Ho chiesto alla maestra G se avesse mai portato i suoi bambini di pianura in gita fino a lì. Mi ha risposto che no, non ce l’avrebbero fatta a percorrere a piedi la salita sulla strada non percorribile dal pullman, per arrivare a quella graziosa frazione. Ovviamente so bene di cosa parla la maestra e di come a volte nella scuola ci si incagli in ostacoli e paure di questo genere. Però, lo confesso, mi è venuto un moto di ribellione intorno a quella impossibilità. È che mi sembra proprio che quella strada in salita vada percorsa: intorno al piccolo focolare antico di “Ca’ dou Rouset” c’è davvero tanto di quel che serve per comprendere e trovare il proprio posto nel mondo, anche quello di oggi.
Qui qualche modo per saperne di più: https://www.cailanzo.it/index.php/extensions-5/altri-musei/item/828-museo-di-vita-contadina-lities
https://www.instagram.com/associazioneamicidilities/
Di lì a qualche giorno abbiamo fatto un’escursione di due giorni, trascorrendo una notte in bivacco. La scelta di cosa mettere negli zaini, l’organizzazione dell’acqua e delle provviste, la fatica della salita, la meraviglia dei lamponi lungo la via, la vista di un vallone aspro con pareti d’arrampicata a cui, un poeta, ha dato nomi mitologici: c’è stato da imparare a piene mani, per tutti, come, insomma, accade quasi sempre in montagna. Ma, più di ogni altra cosa, il pensiero mi si è incagliato su un fatto preciso. Durante la salita e nei giorni precedenti, serpeggiava, soprattutto tra le cinque più giovani componenti la spedizione, il timore che il bivacco (con dieci posti letto) fosse, al nostro numeroso arrivo, già parzialmente occupato. C’è stato poi un allegro sollievo, tra le bambine, che sono state le prime ad arrivare, quando hanno scoperto che il bivacco era ancora vuoto. Ma, poi, molto più tardi, quando la notte era già quasi scesa, ecco che si sono affacciati sul sentiero, in lontananza, due camminatori. E le bambine hanno reagito mostrando una evidente contrarietà. Come sarebbe stato possibile dormire insieme a degli estranei? E ancora: come mai erano stati così avventati da partire tanto tardi? Mentre i due si avvicinavano lentamente al bivacco, noi grandi le abbiamo fatte ragionare sul fatto che non avremmo potuto, a maggior ragione a quell’ora tarda, non accoglierli. Abbiamo spostato i sacchi a pelo e creato i due posti necessari. Eppure, il loro atteggiamento istintivo è stato di paura verso il nuovo che arrivava da lontano, come se si sentissero sicure padrone di un posto che, anche per noi, era di accoglienza temporanea e, nei fatti, immeritata. Come se avessero dimenticato in poche ore che anche loro erano state a rischio di non poter trovare posto. Chissà se lo stringersi per far posto, quell’accollarsi un po’ di disagio per condividere un piccolo tetto spiovente, potrà contribuire a dar forza a quei giovani polpacci per spiccare il benefico salto da gioiosi equilibristi tra focolare e cosmo. Chissà se una gita in montagna, per un gruppo di bambini, anche più numeroso, come potrebbe essere una classe intera, non possa davvero spostare il pensiero verso l’aprirsi agli altri, accettare che siano mossi sul nostro stesso sentiero da ragioni a noi sconosciute, accoglierne il passaggio quando la loro via si sovrappone per un po’ alla nostra, considerare che, in fondo, ogni luogo in cui viviamo è un riparo temporaneo per ciascuno di noi, chiunque sia quello che l’ha occupato per primo, e, alla fine di tutto, imparare a vivere in una pace operosa nel nostro retrobottega e, al tempo stesso, nell’immenso mondo.
Mi piacerebbe provare a far circolare questi contenuti senza i social, come semi trasportati dal vento o dalle mani di chi li trova interessanti. Se questo post ti è piaciuto, puoi condividerlo con qualcuno a cui potrebbe parlare. E se vuoi ricevere le ‘oltreluci a domicilio’, trovi tutto nel banner laterale. Grazie! Chiara


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