Qualche giorno fa ho ascoltato dal vivo la poeta Chandra Candiani.
Due cose fra tutte sopravvivono in me, al momento, tra le tante ascoltate.
La prima è l’esordio della parte di intervista (dopo una introduzione, per me magica, di suoni e poesia). Improvvisa, almeno per me, la sua condivisione di una recentissima telefonata con una persona amica, di cui lei ha raccontato la delusione e il dolore come una lama che le ha attraversato il cuore. Inatteso, per me, ascoltare che una donna portatrice di sapienza e intensa interiorità sia, come me, vulnerabile nelle relazioni e come tale abbia voluto mostrarsi al pubblico sin dall’inizio. Il suo essere nuda ed esposta nei legami è stato un biglietto da visita che ho raccolto come un regalo.
La seconda è stata un suo semplicissimo: dico quello che so, se qualcosa non la so, non ne parlo e, se qualcuno mi fa una domanda a riguardo, rispondo “non lo so”.
È trascorso un mese dal mio nuovo incarico di maestra, il terzo della mia vita. Sono maestra di sostegno, diversamente da come avevo immaginato. Dico sempre che non credo nel destino (anche se a volte questa certezza vacilla), ma in quello che ognuno può o non può decidere di fare di fronte agli accadimenti della vita. E, in questo immenso non sapere delle cose della vita e del futuro, sto nelle poche cose che mi sembra di aver intuito. Tra le cose che mi sembra, oggi, di sapere, arrivata al mio secondo, profondo quanto poco desiderato, anno da maestra che ha un posto di privilegio accanto alle fragilità che hanno un nome, è forse molto semplice da dire, ma altrettanto impenetrabile, a tratti.
Ecco il poco che so, oggi, ecco quel pezzettino di senso che mi sembra, adesso, di aver afferrato e che scrivo in fretta per evitare che, sgusciando via, si porti dietro la sua attuale chiarezza. Questo raggio di luce, uno dei tanti possibili, l’ho raccolto a suon di lame conficcate negli organi interni. È un raggio di luce che oggi mi illumina dopo avermi fatto anche abbastanza male.
Ci piace, anche nell’ambito scolastico, parlare di diversità, come se fosse una categoria precisa e definita, da contrapporre, magari, alla normalità.
Ma la diversità è la condizione di ogni cosa, di ogni essere vivente. Tutto è diverso, tutto è altro da noi.
E oggi so nel profondo, come un raggio di sole che mi scalda ferendomi anche un po’, che l’altro non ci è dato comprenderlo.
Non ci basta una vita per sapere di noi stessi, in fondo: come possiamo avanzare ipotesi sugli altri?
Però, l’altro, se non possiamo capirlo, almeno possiamo conoscerlo, osservandolo alla distanza alla quale ci è concesso, a seconda dei casi e dei momenti, di stare.
E l’altro da noi, qualsiasi altro da noi, è semplicemente altro da noi, nulla più, nulla meno.
Come tale, nel suo essere unico, ha alcune caratteristiche. E quei suoi atteggiamenti, magari i più difficili da affrontare o da gestire, sono semplicemente caratteristiche sue personali, non sono armi che ci rivolge contro. O, magari, sono parti di sé difficili che nascono proprio dall’incontro con le mie parti difficili. Sono i suoi modi di essere, di percepire, di sentire, di funzionare; sono suoi, altri da me. Io li posso (li devo, in alcuni casi) conoscere e accogliere, per provare ad entrare in contatto con il suo singolo mistero.
Ecco tutto quello che, per oggi, so. Tutto il resto ancora non lo so.
Mi piacerebbe provare a far circolare questi contenuti senza i social, come semi trasportati dal vento o dalle mani di chi li trova interessanti. Se questo post ti è piaciuto, puoi condividerlo con qualcuno a cui potrebbe parlare. E se vuoi ricevere le ‘oltreluci a domicilio’, trovi tutto nel banner laterale. Grazie! Chiara


Lascia un commento