Qualche settimana fa ho conosciuto la storia del maestro catalano Antoni Benagies, divulgatore delle tecniche del pedagogista francese Freinet, editorialista di sinistra, giustiziato dalle milizie falangiste nel 1936. La sua memoria è associata e divulgata attraverso il meraviglioso aneddoto (documentato) della sua intenzione di portare i suoi alunni di Bañuelos a vedere il mare.
Oltre che realizzare con gli alunni uno dei tanti incredibili quaderni collettivi “El mar. Visión de unos niños que no lo han visto nunca”, scrisse sul suo taccuino personale: “También ellos, los niños, saben del mar sin haberlo visto nunca”.
Che i bambini conoscano il mare anche senza averlo visto è una verità profonda, poetica, con delle implicazioni così potenti che nessun adulto sulla faccia della terra dovrebbe dimenticarsene. Mi pento di non aver registrato le risposte strampalate e bellissime dei bambini alla mia domanda sul perché, se ci mettiamo ad occhi chiusi e contiamo tutti gli animali a cui sappiamo dare un nome e facciamo altrettanto con i nomi delle piante, la conoscenza degli animali vince invariabilmente in maniera schiacciante su quella delle piante. Ogni risposta bislacca e apparentemente “sbagliata” è stata portatrice di verità.
Non so se quella conversazione cinematografica fosse vera, ma ad un certo punto nel film che parla di lui, Antoni Benagies, dice a Charo, la sua governante e amica: “I bambini devono essere bambini!“. Ogni volta che mi tornava in mente questa frase, qui e là nelle giornate, non riuscivo veramente a mettere a fuoco se sia ancora adatta ai bambini della società in cui vivo io, nella quale alcuni tratti dell’infanzia sono addirittura portati all’esagerazione, con noi adulti che limitiamo le autonomie dei bambini rendendole dipendenze. Insomma, oggi è raro dover difendere il tempo sacro dell’apprendimento da quello che veniva richiesto al piccolo Emilio in famiglia per aiutare a mungere e fare il formaggio.
E invece.
Un giorno qualsiasi, mentre ero in cortile coi bambini per l’intervallo, arriva M e mi chiede: “Maestra, perché ti sei scritta le scarpe?”.
[da qualche settimana sulle mie sneakers bianche sono comparsi “chissà” sulla scarpa destra e “future is unwritten” sulla sinistra, ndr]
“Avevo bisogno di vedere scritte queste parole, forse un po’ le capisci, no?”.
“Sì, “il futuro è”…”
“Il futuro non è scritto”.
“In che senso, maestra?”.
“Nel senso che non c’è ancora. Tu cosa sai del futuro, M?”.
“So che sarò vecchia e mi dispiace”.
Un altro giorno qualsiasi, in classe, col diario aperto.
“Oh, no! Dobbiamo finire di colorare la copertina di geografia proprio per mercoledì, quando ci sarà la prova di comprensione!”.
“E che problema c’è, A, se nei giorni prima di mercoledì devi colorare e mercoledì verrai qui, ascolterai un testo e risponderai a delle domande? Pensaci bene: che problemi potresti avere?”.
“Non importa: qui serve l’ansia!”.
E, invece, sì, quindi: ha ragione ancora oggi il maestro Benagies.
I bambini devono essere bambini, liberi di covare e far volare le loro spiegazioni del mondo, liberi di sapere il mare anche se non lo hanno mai visto, di sognare un futuro ricco e immenso, felici, un giorno di diventare grandi e non rassegnati a essere vecchi, con uno sguardo sulle pagine di diario e di realtà libero dalle nostre nevrosi di adulti.
Mi piacerebbe provare a far circolare questi contenuti senza i social, come semi trasportati dal vento o dalle mani di chi li trova interessanti. Se questo post ti è piaciuto, puoi condividerlo con qualcuno a cui potrebbe parlare. E se vuoi ricevere le ‘oltreluci a domicilio’, trovi tutto nel banner laterale. Grazie! Chiara


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