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Maestra rabbia

Maestra rabbia

La rabbia è un’emozione potente, per quel che mi riguarda, molte volte temuta e repressa, soprattutto nei contesti sociali, ma anche nelle singole relazioni.
Nella mia vita ho negato la mia rabbia per decine di anni, considerandola sbagliata e murandola in un bunker, giorno dopo giorno diventato più antico e più impenetrabile. Non sono mica l’unica, lo so; la rabbia è socialmente poco accettabile e mal si distingue, coi bambini ma anche tra adulti, il comportamento che ne deriva dall’emozione originaria. Si soffre di fronte ad adulti che urlano o si chiudono in mutismi rabbiosi e allora ci si dice intimamente: io non sarò mai così. Ma quel che non si riesce a mettere a fuoco in quel movimento di negazione è che sono l’urlo o il silenzio punitivo o, peggio, la violenza a costituire un problema da affrontare e risolvere, non l’emozione che li ha generati.
Chissà se è proprio sua quella frase attribuita a Buddha secondo cui trattenere la rabbia e il rancore è come tenere in mano un carbone ardente con l’intento di gettarlo a qualcun altro: sei tu quello che viene bruciato. Fatto sta che i miei tizzoni sono sempre stati tenuti in una camera ignifuga a tenuta stagna, con me che fingevo, prima fra tutti di fronte a me stessa, la loro assoluta inesistenza.
Poi, all’improvviso, l’ho ritrovata: l’antica e quasi impenetrabile stanza-bunker dove tenevo la mia collezione di tizzoni ardenti sotto azoto liquido.
L’incontro professionale con B e con A, a cui, nell’immensa fatica, sono grandemente grata, è stata una vera rivelazione. B e A sono bambini tra loro molto diversi, come unici siamo ognuno, ma sono accomunati da esplosioni frequenti di una rabbia violenta e profonda. Stare a lungo con loro, inizialmente, mi ha letteralmente scossa, rendendo ogni giorno di lavoro faticoso come un corpo a corpo nel quale lo sforzo di gestione delle loro manifestazioni eccessive era così potente da farmi percepire nel corpo una stanchezza muscolare e nell’anima una confusione quasi prepotente. Lentamente, un’ora dopo l’altra, un giorno in fila all’altro, la confusione ha preso una forma, a dire la verità per nulla facile da guardare negli occhi. E alla fine, sono riuscita a mettere a fuoco cosa mi stava accadendo: ho riconosciuto la rabbia di B e quella di A come qualcosa di intimo e familiare. Sono entrata in una risonanza arcana con loro, come se la loro rabbia fosse anche la mia, un’eco che risuonava dentro di me con forza e, nonostante i miei tentativi di mistificazione, anche assoluta chiarezza.

È lì che l’ho guardata negli occhi, l’ho riconosciuta, l’ho ascoltata: la mia rabbia negata.

La rabbia nasce dalla percezione di situazioni che minacciano i nostri confini o di situazioni ingiuste, dal senso di impotenza che ne può derivare. Reprimerla equivale a negare il diritto di sentire, di reagire, di manifestare i nostri bisogni, ora questo lo so. Quando non dai a vedere i tuoi disagi e i tuoi bisogni, può anche capitare che ad un certo punto tu decida di cambiare completamente vita e gli altri vivano quella decisione letteralmente come un fulmine a ciel sereno, perché hanno avuto accanto per anni una persona con un sorriso in viso. Invece, gestirla questa rabbia, vuol dire vederla, accoglierla, darle una direzione, trasformarla in energia per il cambiamento. La mia rabbia, da quando ha smesso di farmi paura, ha mutato forma da pericoloso iceberg sotterraneo a benefica geotermia emotiva.

Nel mio percorso, poi, ho avuto modo di lavorare a stretto contatto con chi ha rifiutato le mie manifestazioni (mentalizzate, verbalizzate, controllate) di rabbia, trattandole come qualcosa di inaccettabile. Oggi so che rifiuti come questo non sono frutto di un desiderio di armonia, anzi, tutt’altro. Negare a qualcuno la libertà di esprimere la propria rabbia è privarlo di una parte essenziale della sua identità, renderlo più controllabile, più docile. Questo può accadere nelle singole relazioni, quando reprimere la rabbia, additarla come ingiusta è un, più o meno consapevole, meschino strumento di potere; o, a livello sociale, per non mettere in discussione il sistema in cui si vive.
Dire a qualcuno ‘non voglio sapere che tra noi c’è spazio per la rabbia’ significa, in fondo, dire ‘voglio che tu non metta mai in discussione nulla’. È una forma di manipolazione sottile ma pervasiva, perché chi non può esprimere la propria rabbia non può neanche rivendicare il proprio spazio, difendere i propri bisogni, opporsi alle ingiustizie. E più impari a reprimere la rabbia, più diventi malleabile, adattabile, addomesticabile. Ma non c’è libertà senza la possibilità di dire no, senza la possibilità di riconoscere che qualcosa ci ferisce e chiederne il cambiamento. Per questo non ho passione per la docilità, né la mia, né di quella delle mie figlie, né dei bambini che incontro. Non la perseguo né la mostro.

Non giudicare (troppo) la rabbia è un’enorme liberazione, distinguerla dai comportamenti violenti che possono derivarne una rivelazione. E, ancora, riconoscere che esiste una rabbia sana, che è molto diversa dalla rabbia distruttiva, è stato cruciale.
Da essere umano, da donna, da mamma ed educatrice, lavoro costantemente per la non violenza, ma allo stesso tempo non dimentico che esiste una rabbia trasformativa, che va vista e accolta. Insegnare alle bambine a sorridere invece di dire no, ai bambini a controllarsi invece di rivendicare, agli adulti a confondere la rabbia con la maleducazione e la violenza è insegnare a non cambiare mai davvero, a non disturbare troppo l’ordine delle cose.

Provo a guardare con la stessa accoglienza la rabbia mia e quella dei bambini, e, nella difficoltà e l’errore, cerco un posto vicino per trovare insieme modi rispettosi per farla venire fuori, comunicarla senza fare male agli altri o a sé, rispettandosi e provando a cogliere il messaggio di cui è portatrice.

La rabbia è un segnale di bisogno, una richiesta di giustizia, una spinta a non accettare passivamente ciò che ci ferisce, ci limita, ci invade. Accoglierla, senza lasciarle il controllo né permetterle di diventare distruttiva, è un atto di forza e di integrità.
So che B e A mi hanno consegnato qualcosa di importante, riportando alla luce la mia rabbia, che, ascoltata, accolta e canalizzata, è diventata per me una straordinaria maestra di consapevolezza e trasformazione.

Mi piacerebbe provare a far circolare questi contenuti senza i social, come semi trasportati dal vento o dalle mani di chi li trova interessanti. Se questo post ti è piaciuto, puoi condividerlo con qualcuno a cui potrebbe parlare. E se vuoi ricevere le ‘oltreluci a domicilio’, trovi tutto nel banner laterale. Grazie! Chiara

2 risposte a “Maestra rabbia”

  1. Avatar Elisa

    Grazie un articolo ben scritto e molto utile. Grazie!

    Piace a 1 persona

    1. Avatar Chiara Bertora

      Grazie a te della lettura!

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sono Chiara

lavoro come maestra nella scuola primaria

benvenutə tra le oltreluci, luogo di pensieri e racconti di scuola

le oltreluci accendono l’immaginazione e l’amore per la scoperta, aprono spazi sconfinati di pensiero poetico e critico, intrecciano le arti ad ogni sapere, che si fa così creazione e trasformazione

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le oltreluci sono scintille che abitano i diversi modi di sentire, pensare e conoscere: se riusciamo a vederle, allora possiamo accompagnare a brillare ogni unicità; sono piccoli segnali luminosi a ricordarci che siamo in ogni momento in cammino verso un miglioramento, di qualsiasi entità

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